Re Laurino

Re Laurino Sovrano del Vajolon - Leggenda del Catinaccio

Non è ancora buio e già, sopra Peniola, Venere scintillante brilla nel riverbero diafano del crepuscolo. D’un tratto cala la notte; ad una, ad una, come altrettante stelle, si riempiono di luce le finestrelle dei casolari sparsi nella vallata. Agitato da un brivido tace il bosco circostante, mentre, preannunciata dal suo chiarore, la Luna sale e appare da dietro lo sperone del Sasso Pesméda.

Il globo lucente sembra per un attimo infrangersi fra i rami spinosi e rinsecchiti di quel solitario cirmolo abbarbicato ai piedi della rupe, il solo che sia riuscito a mettere radici nel suo incavo, lì, dove il bosco dirada e la pietra lo arresta, ma poi, agile e intatto, si alza sempre più in alto nel cupo della notte, scivolando presso la «Falce», la cui costellazione primeggia nitida nella miriade di briciole fiammeggianti con le sue sei stelle vivide di splendore.

Pavoneggiandosi, la Luna prosegue nel suo armonioso errare per la volta stellata e va a mescolare il suo oro al pulviscolo della Via Lattea, che, come una via polverosa, solca il cielo e dal fondo della Val di Fassa si prolunga verso Fiemme.

Ora indugia sopra il campanile e da qui irradia in ogni remoto angolo del paese la luce del suo plenilunio; è già notte fonda.

Ormai la gialla fiammella del lumino ad olio oscillando diffonde sempre più stancamente la sua fioca luce ed ancora il piccolo, nella bassa culla di legno, non accenna a prender sonno.

Allora l’ava, che lo veglia, posa l’arcolaio e prende a dondolare la culla.

Il lume, dopo alcuni incerti bagliori, consumato il poco olio, si spegne, ma il chiarore della luna, che riesce a penetrare attraverso la minuscola finestra, è sufficiente a rischiarare la piccola «stua», anzi, quasi mette in maggior risalto ogni oggetto del semplice e funzionale arredamento.

L’ava, piegandosi sulla culla, sussurra al piccolo insonne: E’ tardi, non odi dal campanile i rintocchi della mezzanotte: E tu ancora non dormi!

Il bimbo invece sgrana i suoi occhi: è affabile e vibrante di tenerezza la voce dell’ava, dolce come una ninna nanna: La nonna incomincia a raccontare…

…C’era una volta sul Vajolon (Catinaccio), dove oggi c’è la nuda roccia, un immenso giardino di rose. Vi abitava Re Laurino con la Figlia Ladina, che egli amava teneramente, ed era circondato da una miriade di nani, che lo riverivano e lo accompagnavano dovunque e che formavano il suo popolo. Erano i suoi sudditi, gente piccola di statura ma laboriosa e ingegnosa.

La vita trascorreva bella e serena fra gli splendori di quella lussureggiante natura, dove le rose fiorivano in continuazione durante tutto l’arco dell’anno.

Ma ecco che Ladina, la leggiadra figlia di Re Laurino, da qualche giorno sembra inquieta e stanca di vivere nel regno paterno; la sua smania inizia dal momento in cui i suoi occhi si incontrano con quelli del cavaliere del Latemàr, audace e nobile giovane.

Lo incontra durante una passeggiata lungo i sentieri che circondano il giardino delle rose.

Sul romper dell’aurora, Ladina era solita uscire dalla sua dimora e circondata dal suo seguito, dirigersi alla torre più alta del suo castello (Torre Finestra) per invocare il levar del sole, della cui luce viveva.

«Sole, sole, vieni, eccomi alzata, infondimi la tua forza!». La bella figlia di Re Laurino era ora perplessa ed indecisa fra il dolore che avrebbe arrecato al vecchio padre ed il sentimento nuovo che le inondava il cuore. Ancora un’invocazione echeggia nella vaga, rosea luce dell’aurora, poi lentamente appare all’orizzonte la sfera luminosa, diffondendo calore e vita.

Il raggio dell’amore colpisce Ladina. Ella si scioglie in un canto d’innamorata che il vento porta a ondate verso il Latemàr.

Il cavaliere lo ode e si mette in cammino. Poco dopo arresta il suo cavallo e quelli del suo seguito ai piedi della torre. La figlia del Re, avvertita dallo scalpitio dei cavalli, scende e va incontro al suo sposo così la coppia felice si dirige festante verso l’altra bella montagna.

Re Laurino, non trovando più la figlia che teneva quasi prigioniera, vaga disperato per le aiuole deI suo giardino. Ignora la verità, ma è desideroso di conoscerla e sempre di più l'angoscia lo assale.

Che stridente contrasto, ora tra la felicità di ieri; i cespugli fioriti di rose smaglianti di vividi colori, il canto garrulo degli uccelli, che dimoravano a frotte nel suo giardino, ed il dolore di oggi!

Perché, si chiede il vecchio Re, non prendono parte al suo dolore, come avevano pur gioito della sua felicità?

Ma la natura, commossa si associa alla grande pena di Re Laurino che piange la figlia amata.

Interpellato dal re, il vento gli svelerà la sorte di Ladina. «Dimmi, dimmi, l'hai tu veduta? L'hai tu incontrata? Certo è fuggita. O forse è soltanto nascosta...».

Risponde il vento: «Ladina è andata sposa a un bel giovane, il principe deI Latemàr».

Udito questo, Re Laurino dà sfogo al suo grande dolore e piange la figlia amata e la chiama con tutto l'affetto e la tenerezza del suo cuore di padre desolato.

«Oh! mia Ladina, hai abbandonato tua padre; tutto il mio bene eri tu. Invidio il vento che ti può incontrare, ed il sole e la luna del cielo e le stelle che conoscono il tua nascondiglio!».

E così piangendo vaga e cammina per il suo meraviglioso giardino, che tanto contrasta ora con il suo animo affranto.

D'improvviso, sopraffatto dalla disperazione, prende la drastica decisione e comanda: «Che cali la tenebra e copra i vividi colori di queste rose, di giorno e di notte, e il bel canto si faccia muto!».

A queste sue parole si sprigiona tutta la forza del suo potere magico, racchiuso nel suo cinturone, ed immediatamente tutto cade nel più assoluto silenzio e al posto del regno fatato compare l'arida roccia, la quale potrà riaccendersi dei colori delle rose, una fugace luce porporina, che apparirà ad ogni alba e tramonto: l'enrosadira, il colore magico che risplende sulla montagna nei sereni crepuscoli.

L'incantesimo è compiuto. Re Laurino, seguito dai suoi devoti nani, entra nell'interno del suo regno pietrificato e vi rimarrà per molto tempo…

… Il piccolo, nel dolce dondolìo della culla, s'è appisolato. Forse sogna re, elmi dorati, barbe lunghe e bianche e l'enrosadira, che, come un velo di seta trasparente, avvolge il Vajolon (Catinaccio), che si erge al di sopra dei verdi pendii della conca di Moena, maestoso ed altero nella sua sagoma di castello d'altri tempi.

Che Re Laurino ci stia ancora guardando dalla sua torre di vedetta, dalla Torre Finestra?..

Lo chiederà all'ava un'altra volta perché la storia prosegue…

Seconda Parte - IL LAGO DEL PIANTO

… e passano infatti molti anni. Ladina, andata sposa al cavaliere deI Latemàr, aveva dato vita a tre fanciulle e con loro era andata a stabilirsi dall'altra parte del Latemàr, in una valle soleggiata e ridente, che si chiamava Moena. Raggiunge la verde conca scendendo per la china di Rancolin e sui suoi passi fatati rifioriscono le rose. L'amenità del luogo e del paesaggio piacciono particolarmente alla principessa, tanto che prende per sé il nome di Moena, scambiandolo per quello di prima. Felice con le sue tre figlie, che tanto le somigliano, attenderà qui, paziente e trepidante, il ritorno dello sposo che era partito per la guerra contro i Truxani (Veneti - Trevisani).

Ma i giorni trascorrono lenti, il ritorno tarda e le notizie si fanno sempre più rade. Un triste presentimento le attanaglia il cuore. Come mai indugia tanto il suo sposo? Un dubbio tremendo la tormenta; di questo si confida con l'allodola i cui trilli e i voli festosi la rallegravano nelle sue malinconiche giornate, e la prega di volare verso i campi di battaglia in cerca di nuove.

Nel frattempo lo sposo incontra morte gloriosa sopra una montagna, che per il lutto annerisce. Un'ampia cavità formatasi sulla pendice diventa la tomba del cavaliere. La montagna nera si sposta magicamente all'imbocco della valle di S. Pellegrino in vista di Moena. E' il Ciadinón (a forma di grande catino) la montagna misteriosamente nera in mezzo ai monti pallidi.

L'allodola lo trova ormai morto. Le gocce del suo sangue hanno irrorato l'erba e i fiori sparsi nel prato si sono tinti di rosso cupo. Da allora le Nigritelle, dal profumo intenso e caldo, crescono a macchie sul Ciadinón; sono fiori che i Ladini chiamano i «Sangogn», fiori di sangue.

Col suo becco l'allodola ne coglie uno e lo posa sul viso cereo dello sposo, mentre sospira «se almeno potessi dire alla tua sposa la pace che vi traspare». Ne coglie un altro per portarlo, assieme alla triste notizia, a Ladina, che si scioglie in un pianto inconsolabile e, tornata sul Latemàr, bagna di lacrime quelle rocce, testimoni della loro breve intensa felicità. Copiose scendono dal monte quelle stille cocenti, che si radunano ai suoi piedi.

Allora un brivido di commozione e di intesa passa fra gli abeti e i larici giganti della grande foresta del Latemàr, che intrecciano le grosse e nodose radici e le verdi fronde, affinché lacrime così amare non abbiano a disperdersi; così si formò, dicono, il lago di Carezza, il Lago del Pianto.

Terza parte

Ladina, consumata da dolore muore e le figlie, rimaste sole, crescono nel ricordo e nella venerazione per la fata che diede loro la vita. E crescono pari alla madre in bellezza e in bontà. Le fanciulle trascorrono il loro tempo pascolando le loro pecorelle nel verde pianoro di Ciampian.

Intanto, trascorsi parecchi anni, Re Laurino si desta dal suo letargo; curvo, barbuto e bianco di capelli, che l'elmo dorato non riesce a contenere. Esce dal Catinaccio e si reca verso il Latemàr, dove il vento gli aveva svelato essere il nascondiglio della figlia; la fitta boscaglia non gli permette di entrare; e così egli s'avvia verso oriente, dove, superata la selva di Roncac', il pendìo scende dolcemente e i prati erbosi invitano al cammino.

Sulla china di Rancolin, il Sovrano deI Vajolon rimane perplesso davanti ai cespugli di rose, che si allineano lungo il sentiero.

«Sono le stesse del mio giardino! Che di qui sia passata Lei? Perché tutto fioriva sul suo cammino - si chiede il vecchio Re Laurino.

E più volte torna in quei luoghi, che tanto gli rammentano la figlia. Un giorno anche le tre pastorelle lo scorgono e gli si avvicinano. Lo vedevano sempre triste e piangente.

Fu così che lo interrogano premurose sulla causa del suo pianto disperato.

«Perché non ha tregua il tuo pianto?» gli chiedono. Re Laurino guarda le fanciulle; i loro volti gli rammentano espressioni non nuove, il timbro della loro voce fresco e squillante lo incanta e lo turba.

A sua volta il vecchio Re le interroga, domandando loro di chi siano figlie. Così le tre fanciulle rispondono: «Nostro padre non lo conosciamo, è morto da eroe sul Ciadinón, ma nostra madre è la Fata Moena, è giovane, è bella ed è sempre la stessa, è fata e non muore».

Re Laurino intuisce la verità e, placato, se ne torna nel suo incantesimo sul Catinaccio, che rimarrà spoglio, perché le rose non vi rifioriranno mai più.

Racconto tratto da: “Racconti e leggende delle Dolomiti di Fassa” a cura di Veronica Piccoliori

 

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